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    Luigi Spinola

    UNA LUCE CREATIVA: STORIE DI OUARZAZATE
    Componimenti originali scritti per la Banca europea per gli investimenti, con il sostegno del Fondo d’investimento per la politica di vicinato dell’Unione europea


    All’orizzonte però ci potrebbe essere altro: una comunità energetica, embrione di una comunità euro-mediterranea tout court.

    1.      Ai confini di Noor  

    (Ouarzazate – Marocco). Se arrivi da ovest, risalendo l’oasi del villaggio di Tasselmante, la torre solare di Noor (luce in arabo) spunta tutto a un tratto sopra ciò che resta della mella, dove un tempo stavano gli ebrei. Ora la kasbah è in rovina, gli ebrei non ci sono più, e tra le palme di dattero e i mandorli non si vede quasi nessuno. Solo due donne accovacciate che chiacchierano, sgranocchiano dell’orzo ed estirpano l’erbaccia. Quando mi azzardo a rivolgere loro la parola, mi minacciano scherzosamente con un falcetto. Rimedio un assaggio di mandorle ancora acerbe, parole niente. Uomini non se ne vedono. “Sono a lavorare fuori, a pascolare le bestie o magari in città. Qui nei giardini lavorano le donne, in famiglia si dividono i compiti così”,  spiega Salma,  che mi guida lungo gli stretti sentieri dell’oasi.

    A Tasselmante vivono circa 500 famiglie, sparpagliate in quattro piccoli douar, grappoli di casupole in pisé, l’impasto di paglia e terra battuta con il quale sono fatti quasi tutti gli edifici sulla “Strada delle mille kasbah”, come i promotori turistici chiamano il lungo nastro che si srotola nella regione meridionale di Draȃ-Tafilalet, ai margini del Sahara marocchino. Siamo al confine con la centrale solare termodinamica Noor III, la sezione più avveniristica del gigantesco complesso voluto da Re Mohammed VI  per fare del Marocco una superpotenza del sole.

    Siamo al confine con la centrale solare termodinamica Noor III, la sezione più avveniristica del gigantesco complesso voluto da Re Mohammed VI per fare del Marocco una superpotenza del sole.

    “Gli impianti di questo tipo di solito vengono costruiti nel bel mezzo del nulla”, spiega Deon Du Toit, un enorme boero arrivato fin dal Sudafrica per lavorarci. “Eccoci qui. Benvenuti nel bel mezzo del nulla”, ci accoglie ridendo. Sul plastico che si trova all’ingresso della centrale Noor I – entrata in funzione all’inizio del 2016 - Tasselmante è solo una lieve increspatura nella sabbia. Sembra destinata a farsi inghiottire da quello che diventerà il complesso solare più grande della terra, su una superficie ampia quanto la capitale del Marocco Rabat. Finora però questi mondi si sfiorano ma non si scontrano, né si fondono.

    Certo lo skyline del villaggio è cambiato da quando sono iniziati i lavori anche a Noor III. Manca solo il ricevitore, poi la torre in costruzione che si scorge oltre la mella toccherà quota 247 metri, diventando la più alta di tutta l’Africa, e la più luminosa del mondo. Quando alla fine dell’anno i 7400 pannelli solari piani (o eliostati), grandi ciascuno come un campo da tennis, rifletteranno per la prima volta la radiazione solare sulla sommità della torre, se ne accorgeranno anche qui a Tasselmante.  “La temperatura arriverà quasi a 600 gradi, sarà come un piccolo sole, un paragone migliore non mi viene”, azzarda con una rara impennata poetica l’ingegnere Tarik Bourquouquou di Masen, l’agenzia marocchina responsabile del piano solare. “La luce sarà bianchissima”, insiste, “non sarà possibile guardarla a lungo”.

    In un po’ di luce riflessa spera anche Ouarzazate,  l’unica vera città della regione,  15 km circa a sud di Noor. Ouarzazate da tempo campa di turismo e di illusioni cinematografiche, rivendendosi con furbizia come “La Porta del Sahara”. La prima troupe è arrivata nel 1939 per girare La carovana del deserto, e ancora oggi molti qui arrotondano lo stipendio facendo le comparse. Mohammed è una guida turistica, ma ha girato con Brad Pitt e George Clooney. “Mi prendono perché ho la faccia da cattivo, funziono”, afferma convinto. Difficile dargli torto. Anche Abdo, autista, discendente di schiavi portati qui secoli fa dall’altra sponda del Sahara, qualche lavoretto lo ha fatto, tra il set di Il Gladiatore e quello di Alexander.

     “Ouallywood” è terra di eroi del deserto, spy stories, ma soprattutto di peplum biblici. Anche lontano dai tre studios della città senti il bisogno di dare dei colpetti ai muri per assicurarti che non siano finti. È di polistirolo, un ricordo del set di Lawrence d’Arabia, perfino una porta all’ingresso dello splendido ksar di Ait Bennhadou, pezzo forte dell’offerta turistica della zona, sulla strada per Marrakech. Anche Noor potrebbe presto diventare un set, senza aver bisogno di effetti speciali per raccontare il futuro. “Ho sentito che ci gireranno alcune scene di Desert Storm,  l’ultimo film di Jackie Chan”, dice Mohammed, che spera in un’occasione. Non fosse che per dare un’occhiata oltre i cancelli.

    Anche i turisti sono curiosi. “Ci  chiedono sempre più spesso di visitare Noor. Magari tra un po’ potremmo aggiungere la centrale al giro che va verso Merzouga e la vicina Erg Chebbi, l’unica distesa di grandi dune sahariane del nostro deserto”, dice Fatima, sventolando il dépliant dell’agenzia Desert Dream. Per ora però entrare è complicato, serve un’autorizzazione speciale e a visitare Noor vanno soprattutto ricercatori ed esperti. Qui in pochi hanno superato il confine con la centrale solare. “Anch’io l’ho vista solo da lontano”, conferma Fatima.

    Così a Ouarzazate e dintorni, il suo cortile di casa, Noor rimane un’immensa terra incognita. Se è un’occasione, gli abitanti ancora non sanno bene come coglierla. Certo l’economia gira di più, un indotto si sta formando – attorno alla logistica in primis – e alcuni migranti partiti verso nord sono rientrati a casa. A Tasselmante c’è anche chi alla centrale ha venduto un pezzo di terra. E grazie a un progetto dell’ong Agrisud, partner di Masen, la coltivazione dei giardini dell’oasi è diventata più redditizia. Eppure un brusio di insoddisfazione tra gli abitanti si sente. Perché avvertono che Noor ha già cambiato la loro vita. E in questo cambiamento, che potrebbe irradiare la sua luce molto lontano da qui, oltre il deserto a sud e oltre il mare a nord, vorrebbero riuscire a ritagliarsi un piccolo ruolo.

    Certo l’economia gira di più, un indotto si sta formando – attorno alla logistica in primis – e alcuni migranti partiti verso nord sono rientrati a casa.

    2.      Gli uomini della luce

    “La maggior parte di quelli che lavorano all’impianto sono stranieri”,  borbotta Mahmoud.  “Vengono da Rabat e da Casablanca”. Lui è originario di un paesino di montagna a 70 km da Ouarzazate.  “Dicevano che il 75% dei posti di lavoro sarebbe andato ai locali, ma non è così. Non si arriva neanche al 20%. E a noi vanno solo i lavori più semplici, quelli manuali e per la sicurezza. Le persone qualificate ci sarebbero, a Ouarzazate abbiamo scuole per ingegneri e tecnici, ma preferiscono andare a cercarle lontano, anche all’estero. Ho sentito dire che arriveranno pure gli indiani. Prima c’erano gli spagnoli: hanno costruito Noor I e se ne sono andati. Ora ci sono migliaia di cinesi. Sono loro che stanno facendo la torre”, dice con aria delusa.  

    Quando gli riferisco le parole di Mahmoud, Tarik Bourquouquou sorride scuotendo la testa. È un malcontento che conosce. Le cose però non stanno così, afferma: “Oggi circa l’80% delle persone che lavorano a Noor sono marocchine e la metà di questa regione”. Il grosso dell’offerta di lavoro riguarda la costruzione dell’impianto, perché una volta accesa, una centrale solare termodinamica ha bisogno di pochi tecnici. Al cantiere di Noor I lavoravano 2000 persone, ora che l’impianto è operativo sono solo in 70. Nei cantieri ancora aperti di Noor II e Noor III invece sono 6000. Dopo la pausa pranzo, ai cancelli d’ingresso vediamo sfilare solo silenziosi cinesi in tuta blu. Magari Jackie Chan passerà per loro. 

    “Uno su cinque è cinese, sono circa 1200”, dice Tarik Bourquouquou. “Non sono pochi, lo so, ma una delle compagnie che costruisce l’impianto è cinese. Prima erano presenti gli spagnoli per lo stesso motivo”, spiega l’ingegnere, illustrando la composizione della squadra multinazionale che sostiene e sviluppa il progetto marocchino.

    Tra i finanziatori prevalgono gli attori europei, guidati dalla Banca Europea per gli Investimenti (Bei)  e dalla Ue,  attraverso il Fondo investimenti per la politica di vicinato. Con loro ci sono l’Agence Française de Développement e la tedesca Kreditanstalt fur Wiederaufbau. Tutti insieme hanno fornito circa il 60% dei fondi, il resto è arrivato dalla Banca Africana di Sviluppo e dalla Banca Mondiale. 

    Gli appalti per la costruzione, lo sviluppo e lo sfruttamento delle centrali (per 25 anni, poi il tutto viene trasferito a Masen) sono stati vinti dal gigante saudita Acwa Power, che aveva come partner per la prima fase di Noor I un consorzio spagnolo. Per Noor II e III accanto agli spagnoli di Sener ci sono i cinesi di Sepco III, guardati con sospetto da Mahmoud.  

    “Per le fasi critiche della costruzione abbiamo bisogno di importare anche qualche cervello  dall’estero, perché serve una competenza iperspecialistica, che però viene poi  trasferita al personale locale”, spiega Tarik Bourquouquou. Lui stesso ha le sue radici qui, anche se è cresciuto a Casablanca e ha poi girato il mondo con l’Eni, il colosso italiano degli idrocarburi: “Sono stato in Messico, in Africa e in Canada. Tre anni fa sono tornato a casa”, racconta. Gli piace considerarsi un profugo del mondo del petrolio che ha trovato rifugio nelle rinnovabili. E non è l’unico. “Qui ci sono molte persone che arrivano da altri settori dell’energia, dagli idrocarburi come me, ma anche dal nucleare”, dice. “Per noi è un investimento professionale, perché il solare nel futuro supererà i combustibili fossili, su questo non ho dubbi. Entrare oggi è un bel vantaggio: vuol dire essere un pioniere e crescere con il settore”, afferma Tarik Bourquouquou, salendo verso la sala di controllo a cui è affidata la regia di Noor I.   

    Sotto di noi, 500 mila specchi parabolici di 12 metri di altezza ordinati in 800 filari si muovono come girasoli fino al tramonto. Concentrano la luce solare verso dei tubi trasparenti dove un olio diatermico assorbe l’energia e la trasporta verso uno scambiatore di calore. A contatto con l’acqua, il fluido rovente produce vapore, che mette in moto i generatori elettrici. Una parte del calore è immagazzinato in enormi serbatoi, verrà usato quando mancherà la luce del sole. La centrale è una macchina che sembra funzionare da sola. Sempre che gli uomini incaricati di gestirla non si facciano schiacciare dagli elementi che dominano la vita del Sahara: il sole, la sabbia, l’acqua e il vento.

    3.      Il giorno e la notte  

    “Di notte, quando fatico ad addormentarmi pensando al lavoro, l’unica cosa che davvero mi preoccupa è che il sole l’indomani decida di non si alzarsi”, dice Deon Du Toit. E giù un’altra risata. L’ipotesi è poco realistica. Anche la mancanza di luce è un evento raro nel Sahara. Tarik Bourquouquou ricorda quell’impronunciabile vulcano islandese che nel 2010 oscurò per mesi i cieli d’Europa. Poco più che scaramanzia. Ouarzazate non è stata scelta per caso. “Prima di tutto abbiamo comprato dalle compagnie satellitari i dati sulla radiazione solare diretta al suolo (Dni - Direct normal irradiation), il parametro cruciale per decidere dove costruire un impianto solare termodinamico”, spiega Tarik. ”Una volta fatta la prima selezione abbiamo inviato delle piccole stazioni meteo per saperne di più, valutando al contempo gli altri fattori che incidono sui costi. Quanto è vicina la strada? Dove si prende l’acqua? Com’è il suolo? Questo era il posto perfetto. Così abbiamo iniziato a comprare la terra. Tanta terra”.

    Il deserto del Sahara riceve circa 2500 kWh/m2  all’anno di radiazione solare. Sono oltre tremila ore di sole o 330 belle giornate quasi garantite a chi passa da queste parti. Capitiamo in uno degli altri 35 giorni. Quando visitiamo l’impianto, il cielo poco a poco si copre. E il vento si alza. Nella centrale di controllo i tecnici stanno all’erta. Il cervello di Noor lavora in tandem con la vicina torre meteo, pronto a intervenire per gestire ogni mutamento, e se il cielo si fa cupo o arriva una tempesta di sabbia, anche a staccare la spina.

    La sabbia è una minaccia. La performance di ogni singolo specchio viene monitorata. Dovrebbe riflettere circa il 99% della radiazione solare. Quando la percentuale cala troppo, lo specchio va pulito con l’acqua. Per far funzionare una centrale solare termodinamica, di acqua ne serve molta. Serve per produrre il vapore che mette in moto i generatori elettrici. Serve per raffreddare le turbine. E serve, appunto, per far brillare gli specchi. In un Paese a rischio desertificazione come il Marocco può essere un problema.

    La sabbia è una minaccia. La performance di ogni singolo specchio viene monitorata. Dovrebbe riflettere circa il 99% della radiazione solare. Quando la percentuale cala troppo, lo specchio va pulito con l’acqua.

    Noor attinge all’acqua di un lago artificiale che si trova a una decina di chilometri circa a est dell’impianto, nel mezzo di uno splendido nulla lunare tra le montagne. Di notte l’acqua viene pompata verso la centrale, ma di giorno il silenzio è quasi completo. Dalla piattaforma metallica sospesa sopra il lago guardando giù si intravedono due pesci. Non si avvistano altre forme di vita, tranne l’allampanato ingegnere Mouhssine Ait Ali, un altro fuoriuscito. “Stavo in un settore sporco, lavoravo nel petrolchimico”, dice.

    ”Il lago è stato creato nei primi anni 70 grazie alla costruzione della diga Mansour Eddahbi sul fiume Draȃ”, racconta. “Serve per rifornire la regione di acqua potabile e irrigare i campi.” L’irruzione di Noor non ha scatenato una guerra, assicura. ”La centrale usa meno dell’1% della capacità annua del bacino, il 50% va all’agricoltura. L’acqua non è poi così poca nel deserto”, afferma. Sarà, ma per risparmiarla, le nuove centrali di Noor useranno aria compressa per raffreddare le turbine, anche se è più costosa. E i ricercatori stanno provando a mettere a punto un sistema di dry cleaning.

    Quando il sole cala, gli specchi tornano alla posizione di partenza. Il camion degli addetti al lavaggio che passa ogni sera si ferma a pulire quelli più segnati.  Durante la notte però l’impianto continua a produrre energia. Ed è questo l’enorme vantaggio del solare termodinamico rispetto al fotovoltaico. La tecnologia della concentrazione solare o Csp (Concentrating solar power) permette di conservare il calore del sole in immensi serbatoi-batterie che contengono una soluzione di sali fusi (potassio e nitrato di sodo). Così Noor continua a generare elettricità anche di notte o in una giornata uggiosa,  quando il sole è coperto dalle nuvole.  

    “Il solare termodinamico risolve il problema cruciale dell’accumulo”, sottolinea da anni Carlo Rubbia, uno dei padri del Csp. “Ha una funzione equivalente a una diga, che negli impianti idroelettrici permette di ammassare l’energia e regolarne il rilascio. Cosa impossibile per il fotovoltaico e l’eolico”.

    È stato il Nobel italiano della fisica a introdurre la variante dei sali fusi. A vederlo, questo liquido inodore e incolore sembra acqua. Quando è “freddo” la temperatura dei sali è intorno ai 300 gradi. A Noor I arriva quasi a 400 gradi. A Noor III dove tutti gli specchi concentreranno la luce direttamente sul ricevitore posto in cima alla torre -  tagliando dal ciclo produttivo gli oli diatermici, che non posso scaldarsi oltre i 400 gradi - la temperatura salirà fino a 585 gradi. E le ore di energia a otto, illuminando così anche la notte.

    Produrre elettricità usando unicamente il sole per 24 ore al giorno  è già possibile. “In Cile e in Sudafrica alcuni impianti lo fanno, ci sono due strade: aumentare il volume dei sali o far salire la temperatura”, conferma Tarik Bourquouquou. Il problema dell’intermittenza, il punto più vulnerabile dell’energia solare, tecnicamente è stato risolto. I ricercatori però guardano oltre. Il fluido del futuro potrebbe essere una nuvola di sabbia liquida,  in grado di superare la principale controindicazione dei sali fusi: se perdono calore tornano solidi, bloccando i tubi. La tecnologia cambia di continuo, anche per abbattere i costi. Tutto il resto è calcolo economico, volontà politica, e visione geopolitica.

    4.      La battaglia dei prezzi

    “La misura del nostro successo è definita dal prezzo per kilowattora (kWh), sintetizza Deon Du Toit. “La nostra battaglia è questa”. Il prezzo è ancora alto. A Noor II scende fino a 14 centesimi di dollaro, ma il carbone sta intorno a 0.03 dollari, l’eolico a 0.05, e anche il fotovoltaico (Fv) costa di meno. “Vero, ma quando cala il sole non produce più. E quindi va combinato con una centrale a gas o a carbone e il prezzo salirà. Oppure si possono accoppiare Csp e Fv, come faremo qui con la costruzione di Noor IV, un impianto fotovoltaico”.

    Anche il confronto con il carbone è falsato da prezzi “truccati”, sostiene il sudafricano. “L’equazione è incompleta. I detrattori del solare sottolineano che sono necessarie  grandi superfici per installare gli specchi. Ma è poca cosa in confronto all’impatto devastante di una miniera di carbone. Nel prezzo devi calcolare anche questo”. La tecnologia del solare inoltre ha margini di sviluppo ancora sconosciuti, continua Du Toit. “Dei combustibili fossili ormai sappiamo tutto, qui siamo in un territorio da esplorare. Basta vedere gli enormi progressi di Noor III rispetto a Noor I”.

    La crescita del mercato accelera la corsa verso il basso dei prezzi, grazie ai vantaggi delle economie di scala. Ogni volta che la capacità di produzione raddoppia, il prezzo si riduce di circa il 20 per cento, stando alle stime dell’International Renewable Energy Agency (Irena). Cresce simmetricamente la fiducia delle banche, che tagliano i premi per il rischio sui prestiti, spingendo a loro volta la capacità di produzione a livelli record. Un circolo virtuoso che entro meno di dieci anni potrebbe fare del solare una fonte di energia più conveniente rispetto al carbone.

    La sfida ai combustibili fossili è ben avviata. “Ci stiamo avvicinando sempre di più”, conferma Bourquouquou. In alcuni casi, il sorpasso è già avvenuto. Nel 2016, in Cile ed Emirati Arabi Uniti le offerte per produrre energia elettrica dal sole sono scese sotto i 3 centesimi per kWh, meno del costo medio globale delle centrali a carbone. A metà maggio di quest’anno è arrivata da un’asta per un impianto nel deserto del Rajasthan in India la notizia di un nuovo crollo del prezzo del fotovoltaico, fino a 2.62 rupie per kWh, (0.015 centesimi) con una diminuzione del 40 % rispetto al record precedente. Anche in questo caso il prezzo del solare risulta più basso di quello del carbone (3.20 rupie). Esultano anche a Noor. “Il successo di uno di noi in questa fase è un passo avanti per tutti”, spiega Bourquouquou. “Tutti noi siamo debitori dei pionieri, i primi impianti nella Spagna meridionale o negli Usa occidentali, e continuiamo a seguire ciò che accade altrove. Ogni progetto nuovo incorpora i progressi fatti dai predecessori. Questo è uno dei pochi settori dell’industria dove conviene condividere anche le innovazioni tecnologiche. Perché più avremo impianti come questo, più i prezzi caleranno e più i banchieri investiranno nel solare”, conclude. Così la svolta in India è stata finanziaria, non tecnologica: le banche hanno stracciato il costo del denaro, fidandosi dell’investimento. Determinante il ruolo del governo che ha offerto garanzie agli investitori e  facilitato l’accesso ai terreni.

    È un sostegno che è mancato in parte ai pionieri italiani, che pure hanno un posto di rilievo nella storia del solare termodinamico: da Alessandro Battaglia, che per primo alla fine dell’ottocento pensò a separare caldaia e specchi, ideando il “collettore multiplo solare”, a Giovanni Francia, che tra il 1960 e il 1980 costruì i primi prototipi con specchi piani sulla collina genovese di Sant’Ilario e ispirò il primo impianto solare al mondo a torre centrale (Eurelios), vicino a Catania. Sempre in Sicilia, a Priolo Gargallo, nel cuore del polo petrolchimico siracusano, è stata aperta nel 2010 la centrale solare termodinamica Archimede, pensata e voluta da Carlo Rubbia, la prima a utilizzare la tecnologia dei sali fusi integrata con un impianto a ciclo combinato. L’ultima svolta tecnologica arrivata dalla Sicilia è di pochi mesi fa,  con l’inaugurazione a San Filippo del Mele di un impianto del gruppo Magaldi che accumula il calore in un letto fluido di sabbia.

    Quella italiana nel campo del solare termodinamico è una storia di impianti-pilota avveniristici, ma con una capacità ridotta. Un paradosso in un Paese che primeggia per la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Gruppi e scienziati all’avanguardia hanno aperto nuove strade che un sistema finanziario, industriale e politico forse troppo conservatore non hanno ancora imboccato con decisione.

    Quella italiana nel campo del solare termodinamico è una storia di impianti-pilota avveniristici, ma con una capacità ridotta.

    5.      La via verde

    A livello globale, il sostegno al solare rientra nell’impegno preso a Parigi nel 2015 di contenere il riscaldamento climatico entro 2 gradi rispetto all’età preindustriale. L’aumento fino al 36% della quota delle rinnovabili nel mix energetico globale entro il 2030 fornirebbe la metà dei tagli alle emissioni necessari per raggiungere l’obiettivo, secondo l’Irena. Al resto provvederebbe la crescita dell’efficienza energetica. La transizione a ritmi sostenuti verso una società decarbonizzata produrrebbe anche benefici economici, assicura l’agenzia: il raddoppio della quota di energie rinnovabili porterebbe a un aumento di circa 1.1% del Pil globale. I governi di Siria, Nicaragua e Stati Uniti si sono tirati fuori dall’accordo di Parigi. Gli altri 194 Paesi del mondo vanno avanti.

    È una via verde che il Marocco ha preso da qualche anno, spinto dalla necessità di tagliare una fattura molto pesante. Il Paese soddisfa all’estero il 94% del suo fabbisogno e la domanda nazionale raddoppia ogni dieci anni. Per rispondervi, dopo l’insediamento a Ouarzazate Noor si espanderà aprendo nuovi complessi multi-tecnologici (Csp + Fv) a Midelt, Tata, Laayoune e Boujdor. Oggi Noor I con una capacità di 160 Megawatt fornisce l’elettricità necessaria per il consumo quotidiano di circa 600 mila persone. Entro il 2020 il solare marocchino dovrà toccare quota 2 Gigawatt, di cui 580 Megawatt garantiti dalle 4 centrali di Ouarzazate.  Oltre che sul solare, il Marocco investe sull’idroelettrico e sull’eolico: uno dei parchi più grandi dell’Africa si trova a Tarfaya, sempre ai margini del Sahara, e altri cinque siti sono in costruzione.

    Se tutto andrà secondo i piani, il mix energetico marocchino cambierà radicalmente: entro il 2030 oltre la metà (52%) dell’energia consumata dovrebbe arrivare dalle rinnovabili: acqua, sole e vento in parti uguali. E per quell’anno Rabat si è impegnata a ridurre del 32% la sua emissione di gas serra. L’emancipazione dai fornitori stranieri va di pari passo con l’ambizione di accreditarsi come un modello di sostenibilità ambientale, già esposto durante la Cop22, la conferenza globale sul riscaldamento climatico che nel 2016 si è svolta a Marrakech. Da solo, il piano solare permetterà di tagliare 3,7 milioni di tonnellate di Co2  all’anno. Ma non basta.

    Se tutto andrà secondo i piani, il mix energetico marocchino cambierà radicalmente: entro il 2030 oltre la metà (52%) dell’energia consumata dovrebbe arrivare dalle rinnovabili: acqua, sole e vento in parti uguali.

    La via verde in Marocco va dal bando alle buste di plastica alla creazione di 200 000 ettari di foreste fino al progetto “moschee sostenibili”, che ha come obiettivo iniziale la riconversione energetica (dotandole di lampade a led, impianti fotovoltaici e pannelli solari) di seicento luoghi di culto entro il 2019. La moschea Koutobia, la più bella e antica di Marrakech, dopo quasi nove secoli di storia si è già adeguata.

    Più che agli obiettivi energetici o ai vantaggi collaterali in termini di green economy, il progetto punta a stimolare una piccola rivoluzione culturale. Per diffondere il verbo della sostenibilità ambientale, il ministero degli Affari Islamici ha coinvolto oltre agli imam anche le mourchidates, il clero femminile istituito dopo gli attentati di Casablanca del 2003, quando Rabat avviò la riforma dell’Islam nazionale per contrastare l’ascesa degli estremisti. Nel migliore dei mondi immaginabili e forse irrealizzabili, insomma, la via verde porterebbe in dono al Marocco anche pace e stabilità. E i suoi effetti potrebbero dispiegarsi  ben oltre i confini del Paese.

    6.      La geopolitica del sole

     Quando chiedi agli uomini di Noor dove andrà a finire tutta l’energia prodotta con il solare, un po’ si irrigidiscono. “Serve al Marocco, la nostra è una strategia nazionale che fa fronte alle necessità del Paese”, risponde Tariq Bourquouquou, che però aggiunge: “In caso di sovrapproduzione e di richieste dall’estero, l’elettricità si potrà anche esportare, in Europa o altrove. Ma sono decisioni che si fanno al vertice. Noi portiamo l’energia al distributore. Le scelte strategiche non ci competono. Devi chiedere più in alto, a Rabat”, suggerisce.

    Al resto del mondo, i raggi del sole che cadono sul Nord Africa interessano da tempo. È passato più di un secolo (era l’estate del 1913) da quando il geniale inventore statunitense Frank Shuman accese sulle rive del Nilo, a una quindicina di chilometri a sud del Cairo, la prima centrale solare termodinamica della storia. Davanti alla meravigliata élite coloniale britannica il sistema di specchi parabolici alimentò l’impianto di pompaggio che irrigava i campi di cotone adiacenti al grande fiume africano.

    Sostituire il carbone che arrivava a caro prezzo dalle lontane miniere britanniche con il sole locale sembrava una idea ragionevole, più che visionaria. Shuman però guardava già più in là, al Sahara e alla possibilità di generare elettricità per tutti, nella convinzione che “la specie umana deve finalmente usare l’energia solare diretta o tornare alla barbarie”. Poco dopo, lo scoppio della barbara prima guerra mondiale interruppe il suo progetto. Ma col tempo, la micidiale combinazione composta da ripetuti shock petroliferi, allarme per il riscaldamento globale e incidenti nucleari rilanciarono il sole del Sahara come un’attraente fonte alternativa di energia.

    All’indomani dell’incidente di Chernobyl, il fisico tedesco Gerhard Knies calcolò che l’energia che ricevono dal sole in sei ore tutti i deserti del mondo è superiore a quanta ne consumi in un anno l’intera umanità. Di luce ce n’è per tutti, ragionò Knies, ed  è difficile immaginare una guerra per il sole simile ai conflitti per il petrolio. Sommandolo agli altri vantaggi dell’energia solare, sotto le nubi radioattive che arrivavano dall’Urss Knies si domandò, come Shuman prima di lui, se davvero “come specie, siamo così stupidi da non riuscire a sfruttare questa risorsa”.

    Il fisico tedesco andò avanti senza aspettare una risposta. Una ventina di anni dopo, lo sforzo avviato da Knies portò alla nascita della fondazione Desertec, che aveva come obiettivo la costruzione di una rete di campi solari ed eolici attraverso il Sahara, a loro volta collegati all’Europa da cavi di connessione di ultima generazione.

    Stando alle prime stime di Knies, un pezzo del Sahara grande circa come il Galles sarebbe stato sufficiente per fornire elettricità all’Europa intera. Più modestamente, il progetto si proponeva di soddisfare entro il 2050 il 15% della domanda europea, dopo aver coperto il fabbisogno dei Paesi produttori. A dare concretezza alla visione avrebbe pensato la Desert Industrial Initiative (Dii), un consorzio internazionale a trazione tedesca (tra i primi soci c’erano E.ON, Munich Re, Siemens e Deutsche Bank). Un paio di anni dopo, sulla spinta anche dell’incidente di Fukushima che accelerò l’uscita della Germania dal nucleare, Desertec annunciava il via libera alla prima fase del progetto: la costruzione di un impianto solare nei pressi di Ouarzazate, nel Sahara marocchino.

    un pezzo del Sahara grande circa come il Galles sarebbe stato sufficiente per fornire elettricità all’Europa intera

    Era l’embrione di Noor, e di un piano che doveva espandersi prima a Tunisia e Algeria, poi a Egitto, Siria, Libia e Arabia Saudita. Desertec aveva trovato un partner nel progetto di ispirazione francese Medgrid, che puntava a creare una rete euro-mediterranea di trasmissione dell’elettricità gettando cavi ad altissima tensione tra le due sponde del mare. Il motore politico-strategico dell’iniziativa era il Piano Solare Mediterraneo (Psm), lanciato dall’allora neonata Unione per il Mediterraneo. Gli obiettivi fissati dal Psm nel 2008 erano ambiziosi: sviluppare con investimenti globali stimati a circa 80 miliardi di euro una capacità di 20 Gigawatt entro il 2020, di cui una parte (tre quarti) doveva coprire il fabbisogno locale e il resto venire esportato in Europa.

    Noor da allora è cresciuto per conto suo, nel quadro della strategia nazionale del Marocco. Desertec invece si è spento, vittima anche della nuova stagione di instabilità che ha colpito alcuni tra i partner sulla sponda sud, dopo le promesse della primavera araba. Nell’età dei nuovi muri si è insabbiato pure il più ampio progetto di integrazione euro-mediterranea. A Rabat però interessa ancora.  

    “L’integrazione del Marocco nel sistema energetico regionale ed euro-mediterraneo è una parte cruciale della nostra strategia”, spiega la portavoce di Masen Maha El Kadiri. “Per questo avevamo aderito con convinzione sia al Psm che a Desertec. Ora Desertec non c’è più, e il nostro piano nazionale per certi versi lo ha superato, ma l’obiettivo rimane. Vista la nostra posizione, siamo destinati a svolgere un ruolo d’avanguardia negli scambi energetici nello spazio euro-mediterraneo”.

    L’infrastruttura però è ancora esile. A oggi solo una doppia linea a corrente alternata da 1.4 GW collega i due continenti attraverso lo stretto di Gibilterra. Ma la rete si sta allargando. “La nostra strategia si dispiega su un doppio asse: verso l’Europa e verso l’Africa. Tutto il polo Africa del nord-Africa dell’ovest sarà collegato al vecchio continente”, assicurano a Rabat. Una interconnessione con il Portogallo è già in cantiere, quella con la Spagna verrà rafforzata. Da lì l’energia dovrebbe viaggiare per tutto l’Europa, se sarà rispettato l’obiettivo del 10% di interconnessione elettrica entro il 2020 fissato da Bruxelles. Sulla sponda sud, il Magreb è già uno spazio integrato: il Marocco è collegato all’Algeria, che a sua volta è connessa alla Tunisia. E l’interconnessione prevista con la Mauritania apre all’energia che arriva dal Sahara le porte dell’Africa occidentale. E forse oltre.

    “Quella del sole è una rivoluzione africana”, sottolinea con orgoglio Deon Du Toit. “Oggi è il Marocco a mostrare la strada, poi laggiù ci siamo noi sudafricani, ma in mezzo c’è un continente in parte ancora al buio. La luce di Noor dovrebbe arrivare anche lì”. L’integrazione energetica potrebbe favorire anche il pieno reinserimento politico di Rabat nel continente, dopo il recente ritorno nell’Unione africana, da cui era uscita 33 anni fa (quando si chiamava Organizzazione dell’unità africana) per via del contenzioso sullo status del Sahara Occidentale. 

    Sulla sponda nord del Mediterraneo, le ragioni del piano solare sulla carta sono rimaste intatte. Oltre a diversificare il mix energetico, riducendo così la dipendenza da alcuni fornitori, quei cavi lanciati verso l’Africa potrebbero avvicinare gli europei ai traguardi che si sono prefissati per contenere il riscaldamento climatico, aumentando la quota di energia consumata che proviene da fonti rinnovabili. È un piano che  interessa ancora?

    Il flusso degli investimenti che arriva dall’Europa è un buon indizio. Per la Ue e la Bei, il suo braccio finanziario, un progetto come Noor si trova al crocevia tra le politiche di partenariato a sostegno dei vicini e il focus crescente sull’economia verde in generale e sulle rinnovabili in particolare (la Bei è il più grande attore finanziario multilaterale nel campo della “finanza per il clima”). All’orizzonte però ci potrebbe essere altro: una comunità energetica, embrione di una comunità euro-mediterranea tout court.

    All’orizzonte però ci potrebbe essere altro: una comunità energetica, embrione di una comunità euro-mediterranea tout court.

    Dopo una lunga paralisi, di recente si sono mossi anche i governi nazionali. Alla fine del 2016,  Marocco, Germania, Spagna, Francia e Portogallo hanno firmato un accordo sullo scambio di elettricità da rinnovabili. “Ora abbiamo una road map per l’integrazione regionale con l’Europa. C’è un impulso nuovo”, dicono a Rabat. A gennaio 2017 si è riaffacciata in un vertice a Barcellona anche l’Unione per il Mediterraneo. Della smisurata opera d’ingegneria politica lanciata quasi dieci anni fa da Nicolas Sarkozy è rimasto poco. Ma si è ricominciato a parlare di uno spazio da gestire in comune. Il dialogo non è facile.

    Alla diffidenza degli europei, asserragliati nella loro fortezza, si somma quella degli arabi, sospettosi che alcuni partner sull’altra sponda del mare possano avere ancora in testa dei progetti démodé di sfruttamento delle risorse africane. La primavera araba da questo punto di vista non è passata invano. Una comunità, se si formerà, non potrà ruotare solo attorno ai bisogni e alle inquietudini dell’Europa.

    Oggi più che un piano c’è un’opportunità, anche se si fatica a vederla. Servirebbe quel pragmatico approccio che ha permesso di costruire mattone dopo mattone una casa comune nel vecchio continente. Gli europei iniziarono oltre sessanta anni fa mettendo in comune il carbone e l’acciaio, per impedirsi materialmente di continuare a farsi la guerra. La luce del sole che cade sul Sahara potrebbe dare inizio a una storia diversa, aprendo una breccia in un Mediterraneo oggi blindato.